Il mare italiano è pieno di tesori sommersi dall’inestimabile valore archeologico e culturale. Le fasi di un progetto articolato da un’indagine e dalla successiva pubblicazione di un dossier (speriamo a breve) sui relitti nascosti nelle profondità dell’arcipelago delle Eolie, necessitano di una strumentazione altamente tecnologica. La conoscenza, con tutto il suo bagaglio che deriva a chiare lettere da una connaturata consapevolezza del “continuum”, dell’apprendimento a posteriori, della comprensione dei fatti alla trasmissione delle informazioni precedenti conquistate solo con l’esperienza, ha cambiato volto.
A giugno scorso al largo di Lipari a 130 metri di profondità, è stato scoperto un relitto di una nave affondata da più di 2000 anni. Ma come è stato possibile a quella profondità inarrivabile, sopratutto per i mezzi in dotazione alla Soprintendenza del Mare ? Utilizzando per la riuscita della missione i mezzi messi a disposizione dalla no-profit americana Brownie’s Global Logistic e usufruendo, simultaneamente, dell’appoggio logistico della nave oceanografica “Pacific Provider”, battente la stessa bandiera.
Siamo davvero fortunati: dobbiamo sapere che da un po’ di tempo il patrimonio culturale sommerso, ha assunto la legittimità di “patrimonio comune dell’umanità”. Tutto questo cosa significa ? Semplicemente, che non è cambiata solo la caratterizzazione archeologica di inizio secolo, ma anche il suo percorso e il modello di scelta direzionale che incentiva incondizionatamente, un approccio di studio e sviluppo. Ma che però, pensandoci bene e accostandoci a delle stesse considerazioni evidenti, spicca su tante una metodologia pianificata e senza più distinzioni.
Un miscuglio strano che è riscontrabile persino sui dizionari italiani alla solita voce di “patrimonio comune dell’umanità”: «comprendente i suoli e i sottosuoli marini oltre i confini nazionali, qualificandoli come spazi che non possono essere oggetto di appropriazione da parte degli Stati e che devono essere utilizzati solo per scopi pacifici e le cui risorse devono essere gestite collettivamente e utilizzate a beneficio di tutti i popoli, con particolare riguardo alle esigenze degli Stati meno avanzati e nell’interesse delle generazioni future» (Enciclopedia Treccani).
Ed è quel tutto omnicomprensivo che ci riporta alle indicazioni della Convenzione UNESCO del 2001, sulla tutela del patrimonio subacqueo, ratificata dall’Italia con legge 23 ottobre del 2009 n.157, a chiarire un aspetto sconcertante che andremo ad evidenziare. La Convenzione ha una parte introduttiva di 35 articoli e di un allegato composto da 36 norme relative all’archeologia subacquea. Fin qui nulla di strano. Se non fosse per l’articolo 1 della Convenzione UNESCO, che ha tutta l’aria di sancire ed essere uno spartiacque, rivolto ad un ramo importantissimo dell’archeologia post-moderna: dettandone la simultaneità paritetica dell’egualitarismo prevalente.
Specificando senza possibilità di ratifica che la «preservazione del patrimonio culturale sommerso è a favore dell’umanità». Vale a dire che, c’e’ stata all’unisono, la volontà da parte degli stati europei, di firmare dissennatamente una Convenzione, adeguata esclusivamente sulle priorità tecno-scientifiche di coloro che non hanno un patrimonio archeologico considerevole. Ovvero questo significa essere soggetti alle sperimentazioni autocratiche ed automatizzate di questi ultimi.
È proprio il caso di dire che il Mediterraneo e contemporaneamente l’archeologia subacquea, perfezionatasi nel corso di sessanta anni di attività, abbiano ceduto alle lusinghe della tecnica. Superando quel confine delimitato dalla possibilità di essere d’aiuto all’uomo, invertendone la regola. Sarebbe proprio il caso di rivalutare quel criterio dell’entrare in “terre inesplorate” legato all’economicità, pensando al nostro bacino di competenza che, a differenza del corso senza confini dell’oceano, lambisce le terre della nostra civiltà. Nessuna esclusa.
Francesco Marotta