A venti anni non è facile cogliere tutte le sottigliezze della vita e di una professione legata ad essa. Una questione di scelte. Tanto più, quando ad esserne assorto è un artista, un uomo e due stili pittorici, metafore proprie degli eterni dubbi, delle domande e risposte, classiche dell’età giovanile ma riscontrabili anche in età adulta. L’ultimo romanzo di Cesare Ferri Fuori dal Giro propone una visone introspettiva di un’esistenza per nulla banale e di una costrizione-visione automatica dall’esterno; nel caso in cui un limite che è la conformità non viene inteso come una montagna insormontabile: fronteggiata inizialmente con il solo appoggio da cui ne deriva il fievole sostentamento di un’esistenza sdoppiata dalla sua forma, naïf.
L’ultima pubblicazione di C. Ferri, mette a nudo l’unico modo per sopravvivere nella società cosmopolita e, senza troppo lesinare, tutti i suoi aspetti racchiusi nella molteplicità di alcuni dei personaggi del libro. Accentuandone l’accento su colui, il protagonista del libro Adriano Oneto che, per non farsi notare, come spesso accade, preferisce viaggiare. Scegliendo però, in controtendenza, Parigi, una meta ritenuta dalla corrente universalista dell’arte occidentale in fase di declino: l’apripista di una inclinazione riscopertasi borghese, seguendo il corso artificiale della “Grandeur et décadence”di un movimento artistico, l’arte moderna, di un periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento al 1970 che snaturando Parigi e assieme ad essa, quella armonia e quella forza riscontrabili nell’arte figurativa.
Uno stile istintivo e quei sacrifici interiori, cerebrali, della narrazione immediata, penetrante, dell’autore. Nella Ville Lumière, la “città delle luci”, dei bistrot e dei caffè, degli abbagli indispensabili per i sostenitori delle “avanguardie” (non solo artistiche) designate da un’équipe votata esclusivamente alla speculazione mercantile, Monet, Gauguin, Cèzanne, Renoir, Van Gogh, distaccandosi in un lasso di tempo che pare interminabile dai loro dipinti, conducono il lettore a bere il calice amaro di un vitigno come lo Chenin Blanc (autoctono della Loira), reso arido secondo i celebri maestri, appena fuori dalle impressionanti stanze del Museo d’Orsay; tranne per gli apprezzati clienti dei gastro-bistrot dediti ad una sterile vacanza a basso costo.
Lasciandosi volentieri la collina di Montmartre alle spalle, Ferri ha un’intuizione che nell’ultimo scritto Vite di Cristallo, edito sempre da Settimo Sigillo nel 2011, con cui riesce ad affondare la penna nella menzogna cosmopolita e moderna della riproduzione sistematica di una realtà, tanto cara ai depositari dell’inviolabilità, presuntuosa, di una società contemplante solo una visione d’insieme plurima, quanti sono gli individui che ne accettano le lusinghe. Il paradigma indovinato della civiltà europea, prossima alla liquefazione, irrimediabile, della propria cultura, assimilata da altre, per mano dell’occidentalismo politicamente corretto. Osservando, mai da debita distanza dagli occhi e dal cuore accorto dell’ultimo bohèmien italiano: la dura realtà di un colle artificiale, dove ogni opera effimera degli artisti di strada, corrisponde alla ripetitività identica di un’opera più vasta. L’assimilazione dell’imperante povertà concettuale dell’essere uguali e la sua riproduzione su tela. Pronta per essere impacchettata dal grande bluff dell’omologazione di inizio secolo.
Eccentricità che non incidono sull’equilibrio del personaggio principale che a suo modo, fuori da ogni schema predefinito, predilige la tangibilità della bellezza, del credere in un “Oggi dove niente è più nuovo dell’antico”, piuttosto che alle facili commistioni pervenuteci da una ciclicità moderna: cornucopia porta sventure della ripetitività e della mancanza di una conoscenza della realtà, nell’immaginario collettivista, irreale. Questa volta C. Ferri decide di mettere in disparte solo a brevi tratti il nichilismo che ha sempre caratterizzato i suo lavori. Facendocene una ragione e, per la prima volta, mettendo a nudo la dualità dei due amori e delle due personalità differenti in una scelta: Adriano Oneto, antepone d’innanzi ad un bivio tratteggiato dai sentimenti ondivaghi provati nei confronti di due donne, l’estremo. L’ennesima difficoltà graduale nel farsi carico vivendo i problemi che la crisi sistemica comporta, dando la preferenza ad una delle due, Virginie e a quel disperato amore che incarna perfettamente lo stimolo perduto: l’autenticità della forza, dell’antica voluttuosità combattuta come un fiume in piena, sopraggiunto nel rapporto fra la grandezze e l’esilità di un sentimento contrastante.
La postfazione del libro scritta da Marco Valle e cadenzata dalla fluente disamina delle tortuosità “passatiste”, riscontrabili in diverse poesie di Costantino Kavafis, (autore di “Termopoli” e “Aspettando i barbari”) sfocia , come sua abitudine, nell’estesa facoltà dell’avvertire un ottimo lavoro letterario al pari di una possibilità concreta di un approccio alla lettura, mai banale. Pierre Drieu La Rochelle e la generazione del dopo guerra rivivono al fianco di Adriano Oneto ? Una comparazione audace che vale davvero la pena di scoprire. Perdendosi di buon grado negli ultimi scorci della civiltà europea.
Cesare Ferri
FUORI DAL GIRO
Settimo Sigillo, Roma 2013
Ppgg. 192 – euro 18.00