A destra solo traditori e vinti? L’insopportabile peso della retorica

Di analisi e controanalisi sui come e i chi della crisi della destra italiana ne abbiamo fin sopra i capelli.

Alcuni necessari esami di coscienza e molte accuse, qualche progettualità e molte anti-progettualità: il mondo della destra, costruito sul mito fondante della sconfitta fedele e dei nobili perdenti, ma “sempre dalla stessa parte”, ha usato la dialettica fedeli-traditori un tempo per costituirsi, oggi per sabotarsi. E spesso non interessa la vittoria propria, quanto la sconfitta altrui.

Tutti mogli tradite, abbandonate sull’altare, cornificate, fatte fesse. Peana, cori tragici. La retorica del tradimento, utile allo scontro politico esterno, sfocia facilmente nel vittimismo e nell’auto-assoluzione, trasferendosi poi all’interno del partito o della comunità. Così il tradimento, da sociale, diviene un giudizio personale. Buona parte dei quadri (o ex quadri) e dei dirigenti (o ex dirigenti) hanno creato delle incompatibilità anzitutto personali tra di loro. Le elezioni di cinque anni fa, il congresso di dieci anni fa o le provinciali di venti anni fa, sono tutti ritenuti buonissimi motivi di discussione e risentimento mortale ancora oggi. Politici di rango locale o nazionale si rivelano permalosi come i Nani di certe storie di fantasia, capaci di rancore per secoli o millenni. L’esito poi è proprio quello: ridursi a nanetti incazzati dentro enormi saloni vuoti nel cuore di montagne abbandonate, che consacrano il proprio futuro al passato. Per chi vuole fare testimonianza, il suggerimento è quello di scrivere un libro o organizzare tavole rotonde, se gli riesce. Ma per chi vuole fare politica, la sfida resta quella di trasformare le idee in azioni, creando consenso e condivisione su proposte valoriali, non divisioni personalistiche.

In una bella introduzione a Roger Stephane, Sartre spiega come l’eroe borghese, di contro al militante comunista, è un solitario con manie di protagonismo e autodistruzione. Certa politica italiana gli conferma piena ragione. I partiti maggiori, i partitini-particella, le correnti e le sottocorrenti: tutti si vuotano e poi riempiono per incompatibilità ambientali prima ancora che ideali. Un po’ perché non tutti sono capaci di parlare di politica vera; ma soprattutto perché pochi “politici” sanno rinunciare al protagonismo, al sentirsi i piccoli eroi di una battaglia che è solo nella loro testa, nel loro orgoglio. In questo modo assistiamo a un travaso di quadri e dirigenti: gli incompatibili escono dai partiti e vengono talvolta sostituiti dai reduci di ben altre esperienze partitiche. Anche quando meno compatibili politicamente, se più compatibili personalmente. In questo modo non si rappresentano idee, ma simpatie e antipatie; e i recinti si fanno sempre, inesorabilmente, più stretti e vuoti.

La dinamica brevemente descritta è del tutto naturale e umana. Non ci possono essere accuse, perché nessuno è esente da colpe. Auto-assolviamoci ancora una volta. Occorre però osservare che buona parte della diaspora della destra ha premesse personali. Questo perché è difficile distinguere le parole da chi le pronuncia: giusto e naturale così. In una comunità umana che si è sempre raccontata come una famiglia, le liti tra fratelli sono un corollario inevitabile, come pure i tentativi violenti di emancipazione dai padri.

Nondimeno, per chi ha l’ambizione di interpretare un rinnovamento, resta centrale l’esigenza di ricominciare a parlare anzitutto di idee e azioni per costruire, su queste, un consenso. Spogliandosi di quella retorica del tradimento, del passatismo, del rancore eterno; che per quanto comprensibile quando onesta è, il più delle volte, ridicolo autolesionismo politico.

Fonte: Destra.it, Andrea Tremaglia, 5 aprile 2016

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