Caro Andrea Tremaglia, ho letto attentamente la lettera che lei ha scritto e ho deciso di risponderle. Per quanto mi riguarda non ha tutti i torti ma, guardandomi bene dal vestire i panni dell’interessato alle beghe interne alla destra, pongo un quesito: che cosa è e cosa è stata secondo lei la destra ? Anche perché, questo bisogna chiarirlo. Non crede che sia il caso di abbandonare (questa non è dietrologia e passatismo) l’uso di un brand e ancor di più di una morale, che tra l’altro è stata affibbiato dai pennivendoli della politica su carta stampata, per fare uno sforzo ed andare oltre un sentire che quasi nessuno, sente suo fino in fondo ? Faccio presente che il moralismo che pervade la destra è una peculiarità propria.
Io non me la sento di sparare contro chi ha scelto un’altra strada: tanto meno se hanno deciso di usare il cervello, senza mandare all’ammasso la propria intelligenza al servizio di un organo collegiale, composto dai soliti illustri e dalle stesse sentinelle che nessuno a scelto ma, che continuano, indisturbati, ad auto-eleggersi e a promuoversi. In sincerità, non penso che lei veda del nuovo che avanza tra le facce pur giovani, di alcuni dirigenti.
Tanto meno, non devono certo stupire coloro che nella vita hanno fatto delle scelte che non sempre coincidono con quelle di una destra politica e di un ideale, che spesso e volentieri non corrisponde ad uno spirito che è “conservatore”, nell’eccezione del termine. Nel quotidiano, spiritualmente, seguendo dei principi che talune volte, vengono confusi con i valori. In questo, sono pienamente d’accordo con questa affermazione che fece alcuni mesi fa Cesare Ferri. Sono uno di quelli che ai principi fondamentali dei “New College” ha preferito occuparsi di altro.
Però, leggendo il suo testo mi sono imbattuto in questa frase che mi ha lasciato perplesso: «In questo modo non si rappresentano idee, ma simpatie e antipatie; e i recinti si fanno sempre, inesorabilmente, più stretti e vuoti». La penso come lei sui recinti che vuoti o pieni, tali rimangono. Meno invece, quando il tema è la rappresentatività delle idee. Per cui, e per una volta, seguo l’invito ad una visione che è puramente politica e che concerne l’idealismo. Nel libro Finitezza e libertà: Heidegger interprete di Kant , troviamo un passaggio molto interessante e che la dice lunga, sull’interpretazione che dà il filosofo tedesco, sull’idealismo: «L’interpretazione dell’essenza dell’Essere ( Seyn ) come “idea”, come esser-rappresentato dell’ente in generale».
Ecco, io penso che la destra se vuole ritrovarsi in qualcosa d’altro che non sia un appellativo, deve prima di tutto liberarsi dalla dottrina personalistica e di un “io” egoistico quanto individualista. Certo, è più facile a dirsi che a farsi. Credo sia chiaro a cosa mi riferisco e fattispecie a quell’ente heideggeriano , che non è certo solo il “rettorato” della Fondazione di Alleanza Nazionale, bensì quasi la totalità di quello che lei identifica come destra. In quanto ai Nani, agli accidiosi che ha perfettamente descritto, penso siano l’ultimo dei problemi. Il primo da risolvere è l’innesto della destra, in un quadro politico e generale che si basa sulla democrazia rappresentativa, delle deleghe, profondamente liberale, borghese e progressista, accettando di buon grado di escludere a priori la partecipazione “democratica” della cittadinanza, alla cosa pubblica.
E privandosi così, di un apporto importantissimo della comunità e delle sue genti, delle basi e delle nozioni, descritteci da Alain de Benoist: «La partecipazione sancisce la cittadinanza, che deriva dall’appartenenza. L’appartenenza giustifica la cittadinanza, che permette la cittadinanza». Insomma, è meglio non confondere il senso biologico della famiglia naturale con tutto il corollario di litigi fraterni (?) e colpi bassi che lei ha citato. Poi, per quanto riguarda un programma politico che a me non compete stilare, credo che i punti sopra citati, siano già sin troppo predominanti. Salvo, perdersi ancora una volta, nelle tipizzazioni culturali, sociali e di tendenze espandibili che, sono anche una costante della politica.
Giusto per stare in società, dimenticando tutto il resto. E se tutto si riducesse, per l’ennesima volta, ad un ulteriore “laboratorio” e ad un’improbabile Itaca, dove i proci a differenza del mito, sono riusciti a ribaltare la situazione ? Riprendo quello che ho espresso in un precedente scritto, perché potrebbe avere il sapore di “una storia e di una fine, insita nelle immancabili celebrazioni di un fortino spazio-temporale che si espande e si ritrae, solo in funzione di se stesso”.
Non ci vogliono uomini e professionisti. Prima delle idee che come abbiamo visto, spesso portano altrove, occorre prima saper proporre un complesso di elementi che è differente da tutto ciò. Ma d’altronde, è comprensibile che abbandonare una metodica della riflessione che ha fatto della razionalità, dell’ingegno tecnico-scientifico alla continua ricerca di un voto, il fattore predominante, è un’utopia. Altro è, l’impegno di tutti a seconda delle proprie capacità nei posti che gli competono, per raggiungere degli obbiettivi che non sono ad personam. Basterebbe solo capirlo? I dubbi si sommano alle certezze…
Francesco Marotta