Il lavoro è sempre più condizionato dalla bipartizione riuscire-apparire. Seguendo la prima ramificazione, notiamo l’immancabile tendenza a prevaricare ogni aspetto dell’etica del lavoro che non sia di derivazione luterana o rinascimentale: “L’uomo deve e può lavorare e fare qualcosa […], perché se non lavora Dio non gli dà nulla”. Nel cattolicesimo invece, San Paolo andò ancora più nello specifico. Troviamo nella Bibbia, nel Nuovo Testamento, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, un indizio particolareggiato su una delle conseguenze del peccato originale e del lavoro : “l’uomo del lavoro, colui che lavora con il sudore della sua fronte e anche con la fatica del suo spirito e delle sue mani”. In questo caso, l’uomo prima di cimentarsi in qualsiasi attività «deve» lavorare, seguendo un punto di vista unico con tanto di complicità del divino. Questa è anche l’interpretazione post-moderna del lavoro, ridotto ad essere le colonne «Dare e Avere» del metodo della partita doppia. Il lavoro diventa nient’altro che un ornamento di facciata della scrittura contabile. La produttività massima da raggiungere al minor costo (addizione) e la diminuzione delle retribuzioni (sottrazione) dei lavoratori, alle prese con strumenti tecnologicamente avanzati ma non in grado di utilizzarli, per la poca formazione. Siamo peccatori e dobbiamo vivere nell’era del “Mordi e Fuggi” e dell’interesse personalizzabile, immediato, dovuto al credere nella tecnologia come accessibile a tutti ma, utilizzata da pochi per fini puramente individualistici. Sudare ed espiare ? Qualche secolo dopo, sulle stesse idee ma attualizzando la concezione, il motto Plus ultra di Sir Francis Bacon, alias Francesco Bacone, ispiratore dell’Encyclopédie (Enciclopedia e/o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Una rassegna degli ideali dell’illuminismo), supera se stesso e una condotta non solo nell’ambito scientifico, calcolatrice.
Francesco Marotta
Di seguito un’interessantissima intervista di Federica Capponi a Dominique Méda del 14 novembre 2016.
“ L’idea di lavoro in Europa. Sintesi di una ricerca dell’ILO”
L’idea di lavoro in Europa.
Dominique Méda, Professoressa di sociologia all’Université Paris-Dauphine e Direttrice dell’IRISSO (Institut de Recherche Interdisciplinare en Sciences Sociales), la quale ha di recente pubblicato una ricerca commissionata dall’ILO volta ad analizzare l’evoluzione del concetto di lavoro alla luce dei cambiamenti economici e tecnologici, nonché i suoi effetti sui lavoratori.
L’idea del lavoro alle origini
L’Autrice ci ricorda come il lavoro si sia trasformato da mera attività produttiva logorante (si veda l’origine della parola francese travaille: tortura, sacrificio) ad un’«attività positiva e creativa», così come descritta Marx. In particolar modo, è nel IXX secolo che il lavoro assume quel ruolo centrale che oggi gli attribuiamo, divenendo l’«essenza dell’umanità». Tuttavia, se Marx preconizzava una società egualitaria dove l’attività lavorativa non avrebbe presupposto il concetto di salario, essendo il lavoro piuttosto una necessità di tipo quasi spirituale, gli eventi hanno seguito un diverso corso. I governi e le costituzioni europee, infatti, hanno consolidato il concetto di retribuzione, presentandolo come la strada principale per una vita socialmente desiderabile. Dunque anche il diritto del lavoro e della previdenza sociale, nella maggior parte dei Paesi europei, si è modellato intorno a questo paradigma concettuale. Si è così rafforzato sia il valore del rapporto di lavoro subordinato che il concetto di retribuzione, da cui l’idea che il benessere sociale sia necessariamente legato alla crescita intesa come aumento della produttività e dell’occupazione.
L’idea del lavoro oggi: tra etica del dovere ed esigenze di sostentamento
L’analisi delle indagini condotte dall’Europen Values Study (EVS) ai lavoratori di 47 Paesi in quattro ondate di interviste (1981, 1990, 1999 e 2008), mostra il modo in cui gli europei si rapportano al lavoro. Se da un lato è ancora diffusa una visione del lavoro come “etica del dovere”, dall’altro rimane dominante la concezione del lavoro nella sua dimensione “strumentale”: in media l’84% degli europei considera il lavoro importante, poiché permette di “sbarcare il lunario”. Ovviamente le percentuali all’interno dei singoli Paesi variano: dall’89% del Portogallo, al 55% della Danimarca; non è irragionevole ritenere che dove il sistema di welfare è migliore, l’esigenza di un lavoro ben retribuito è inferiore. Un’ultima visione in crescita tra la popolazione è l “expressive dimension” del lavoro, che lo interpreta come mezzo di autorealizzazione. Questo atteggiamento alla vita lavorativa risulta particolarmente diffuso tra i giovani, le persone maggiormente istruite e le donne.
Il lavoro ai tempi della flessibilità
L’analisi delle condizioni attuali del mercato del lavoro presenta ulteriori elementi di complicazione. Il miracolo economico verificatosi tra gli anni 1945 e 1974 aveva come fulcro la possibilità di produrre beni standardizzati destinati ad un ampio mercato c.d. di massa. Tuttavia, nel momento in cui la globalizzazione ha imposto ai Paesi il confronto con i mercati esterni, la crescita si è interrotta e gli imprenditori sono dovuti ricorrere a misure di flessibilità nella gestione della forza lavoro. La flessibilità del lavoro ha avuto riflessi importanti nella vita dei lavoratori europei. In particolar modo, la disoccupazione in crescita e il sempre più frequente ricorso a forme contrattuali atipiche hanno inciso sullo stato psico-fisico dei lavoratori stessi, come dimostra l’indagine EVS del 2010, secondo la quale solo il 15% degli intervistati non ha mai sofferto di patologie legate allo stress lavoro-correlato. Méda denuncia come oggi le aziende chiedano ai propri lavoratori di essere più partecipativi, ma negano loro strumenti di maggiore autonomia. Al contrario, le aziende hanno rafforzato l’aspetto della supervisione e dell’individualizzazione, con buona pace dell’autostima dei lavoratori. Infatti, una ricerca di Gallie e Zhou (2013) dimostra come, nelle aziende che rendono maggiormente partecipi del processo produttivo i propri lavoratori, si manifesti tra di essi uno stato di benessere generale, meno assenteismo e maggiori soddisfazioni lavorative.
Nuove tecnologie e mercato del lavoro
Inoltre, l’automatizzazione del lavoro sta modificando necessariamente la fisionomia del mercato del lavoro. Nel modello delle start-up, il lavoro è sempre più da intendersi come collaborativo; si assottiglia la differenza tra vita privata e vita professionale; quest’ultima è caratterizzata da una somma di attività lungo l’arco della giornata, di cui si è gli unici responsabili. Anche le abilità richieste a chi entra nel mondo del lavoro oggi si sono trasformate. Le qualità più richieste sono: attitudini alla leadership, al problem solving e particolari doti comunicative, nonché innovative. La digitalizzazione, inoltre, ha reso possibile l’eliminazione della mediazione tra chi chiede e chi fornisce il servizio ( il c.d. work on tap) e delle barriere in entrata rappresentate dalle categorie professionali. Méda parla al riguardo di “uberizzazione” (dal caso Uber, famosa app per il trasporto alternativo ai taxi) della società. Ma quali sono le conseguenze per chi opera in questo mercato? Si tratta di un mercato dove chi fornisce la prestazione non è considerato né un impiegato, né un imprenditore, ma piuttosto un “partner”. In conclusione, si lavora come dipendenti, sotto la supervisione di un terzo (sebbene sia un algoritmo), ma non si ha nemmeno un contratto sul quale poter contare. In questo modo il rischio di impresa passa dall’azienda al lavoratore, il quale non può, però, partecipare alla ripartizione dei profitti che restano tutti in capo all’azienda.
(Fonte: http://www.bollettinoadapt.it, Federica Capponi,14 novembre 2016)