Parole chiave/ Il populismo, dagli albori alle deformazioni contemporanee

 

A termine delle presidenziali francesi e dello scontro tra le due “M” Marine/Macron, delle bagattelle familiari di casa Le Pen, è il caso di considerare il “populismo” non solo in chiave anti-Europa e No-euro, spostando l’attenzione dalle teorie degli agit-prop a favore e contro, verso le origini e quello che ai nostri giorni reputiamo tale. La domanda che molti si pongono è la seguente: dopo la sconfitta del FN e di altre formazioni più o meno politiche del panorama europeo, siamo giunti al fallimento del “populismo” ? Molti ritengono che sia così. Altri invece, antepongono una visione totalmente diversa. Facciamo un po’ di chiarezza in merito.

Cominciamo col dire che il populismo, può assumere dei caratteri semi-ideologici ma, d’accordo con la disamina storico-politologica del professor Marco Tarchi che scorge in questo fenomeno, una “[…] mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e
l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione[…]”, il discorso si fa un tantino più complesso.

Il “populismo”, proviene dal termine russo narodnicestvo, tradotto successivamente in inglese con il termine populism e si sviluppa nel 1848, dalle analisi e dagli scritti degli intellettuali Michail A. Bakunin, Nikolaj G. Černiševskij e Aleksandr I. Herzen, diffondendosi con modalità diversificate negli Stati Uniti e in Sud America. Per ciò che riguarda la Russia e le sue propaggini, inizialmente era caratterizzato dalle rivendicazioni per la obščina, la comunità agraria russa ed il Mir, il consiglio del capofamiglia con facoltà deliberatrici dalle origini medievali delle comunità rurali, da cui deriva la versione iconografica del “populismo” strettamente connesso alle nozioni di autogoverno ed autonomia.

In America del Nord, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, la forma populista era caratterizzata dal farmer americano, molto differente dal mužik russo, in quanto il retroterra culturale era imperniato dai valori dell’imprenditorialismo dei pionieri e dagli ideologi del sogno della «Frontiera». Nel Nuovo Mondo, era alle prese con la forte industrializzazione e con i signori delle ferrovie, delle consorterie economiche, finanziarie e bancarie; in realtà, senza mai riuscire ad opporre una resistenza degna di nota al capitalismo mercantile. Nel corso degli anni, venne a galla una forte connotazione insita del “populismo liberale” che rivendicava nottetempo il diritto “all’egualitarismo delle opportunità”.

La svolta americana se così possiamo definirla, ebbe inizio con la nascita del People’s Party nato in Kansas nel 1890, che discostandosi dai farmers e formalizzando tutte le rivendicazioni che comprendevano la ridistribuzione delle terre dalle grandi società ai coloni, la nazionalizzazione delle ferrovie, la regolamentazione delle attività creditizie, la tassazione graduale ed equa e la reimmissione delle monete d’oro e d’argento, senza però distaccarsi molto da quella “ossessione produttivista” e dall’ideologia del lavoro di stampo occidentale che esordì ufficialmente nel decennio successivo. In sostanza, alimentò uno dei precetti, riconoscibili nell’era post-moderna, dal forte impatto nell’immaginario collettivo delle società occidentali.

In America Latina sin dagli inizi del Novecento, notiamo quanto le tipologie del “populismo” pur essendo unite da una radice comune, quella che indica il ‘popolo’ come unico soggetto principale dell’azione politica, spesso hanno convissuto nello stesso scenario, evidenziando una condivisione dei principi di base ed una conflittualità latente. Basti pensare ai moti cileni del 1973 contro il golpe militare di Augusto Pinochet e le tipizzazioni classiche del “populismo” di sinistra e di quello nazionalista.

Oppure, osservando con interesse​ il periodo del peronismo argentino e il movimento dei Montoneros, emerge la diversificazione delle sensibilità politiche, presenti in quel movimento; dal nazionalismo al socialismo, dalla sinistra alla democraticità di stampo cattolico. Per non parlare del cambiamento del 1989 e del primo mandato presidenziale di Carlos Saúl Menem, sospinto da quello che poi si dimostrò nei fatti un “populismo liberale”. Sulle declinazioni del “populismo” che attraversano la storia dell’Equador, del Brasile, del Messico, di Cuba, Perù e Uruguay, non basterebbero​ degli scritti chilometrici per descriverle interamente.

Venendo a noi e in particolare alle vicende italiane, quel pensare al popolo come ad una comunità organica che non soggiace alla rappresentatività dei politici di professione, dalla critica serrata alle oligarchie (senza spingerci nei trascorsi storici a cavallo delle due guerre mondiali), riscontriamo la nascita del movimento di opinione del “Fronte dell’Uomo Qualunque” che agli esordi, nel lontano 1944, ruotava attorno all’omonimo periodico fondato da Guglielmo​ Giannini. La creatura di Giannini, parecchio eterogenea e tacciata di cripto-fascismo per le sue rivendicazioni politiche e satiriche contro il comunismo “dell’anti-fascismo di professione”, pur essendo sempre stata contro il centralismo decisionale del periodo fascista e della destra di allora, segnò indubbiamente l’archetipo del “populismo” contemporaneo in Italia.

Ora però, c’è da chiedersi quali siano le differenze con il “sovranismo” dichiarato di alcune formazioni politiche, presente in alcuni aspetti del “populismo”, non essendone l’elemento indentificativo di tutte le complesse diramazioni. Intanto, prendendo ad esempio il partito sorto dalle ceneri di Alleanza Nazionale, Fratelli d’Italia, notiamo che a differenza del Movimento 5 Stelle, permane una presenza massiccia di habitué della rappresentatività politica. Possiamo dire che nel partito ha avuto il sopravvento il maquillage di una corrente sull’altra ? Anziché, la scelta forzata del fare un passo indietro del gruppo dirigente di lungo corso ad appannaggio dei più “giovani”.

Un cambiamento che in realtà è tale solo per l’età anagrafica ma poco per il trascorso delle giovani leve, negli scranni istituzionali. Del “populismo” in senso lato, troviamo degli elementi di destra, ereditati dall’esperienza del Movimento Sociale Italiano; intercambiabili con quelli del “populismo liberale”, trasmessi all’epoca dell’ingresso nel polo del Partito della Libertà e strumento elettoralistico di berlusconiana memoria. A dire il vero, una certa impronta liberale, era presente già nel MSI di Giorgio Almirante.

Nella Lega Nord fondata da Bossi, il richiamo al regionalismo, all’autonomia e all’etnocentrismo del Nord, è mutato in una forma di “sovranismo” che sembra guardare più in là dell’ argomentazione governanti-governati ma, limitandosi a spostare il tiro da Roma a Bruxelles, dall’anti-meridionalismo all’anti-euro. Ad essere sotto la lente di ingrandimento è ancora una volta, la tematica sovranista che mette in secondo piano quella populista. Perlomeno, questi sono gli aspetti principali.

Ma allora, che fine ha fatto il populismo propriamente detto in Italia ? Troviamo elementi seppur fievoli nella Lega Nord, presenti nella dialettica e persino negli slogan roboanti, in Fratelli d’Italia nell’emanazione dei trascorsi missini, soprattutto in quelli di un “populismo” che si pensa di destra ma che in realtà è caratteristico del conservatorismo di impronta liberale. Bisogna aggiungere che nel partito di Salvini, troviamo delle compagini che attraversano il comunismo d’antan (vedasi Salvini ed i suoi “comunisti padani”), il federalismo integrale ed una nutrita componente di destra.

All’interno del Movimento 5 Stelle, questo tipo di ripartizione è mitigata dalla presenza ingombrante di Grillo e dalle priorità di partecipazione attiva degli aderenti. I quali, possono scegliere e decidere sulle decisioni che riguardano il movimento, sulla scrittura della leggi nazionali e regionali, cimentandosi con la preparazione delle proposte per il Parlamento italiano ed europeo, sulla scelta dei candidati, sulle interrogazioni, delibere, leggi e quant’altro. L’intento più o meno dichiarato, è quello di allontanare l’espertocrazia nel suo insieme e di mettere in moto, i principi della democrazia diretta. Che sia veritiero o meno, rappresentano oggi, la prima forza politica in Italia.

In conclusione, tornando alla domanda iniziale sul fallimento del populismo, possiamo dire che nel corso dei decenni ha goduto di momenti esaltanti ed altri meno. Nonostante ciò, a differenza dei suoi detrattori e del turpiloquio mediatico sulla denominazione affibbiatagli, in quasi tutti i continenti è sempre stato protagonista della scena politica. Oggi poi, sembra godere di ottima salute. Malgrado le invettive di Berlusconi e le ammonizioni dei suoi leali “Family Banker” dell’amministratività politica-partitica, che puntano esclusivamente a riproporre l’ennesimo polo elettorale.

Forse, noncuranti che nel 1994, diedero vita ad una ‘rivoluzione’ (?) iscrivibile anch’essa, nella brutta famiglia del “populismo liberale”. Una breve e disastrosa, parentesi impolitica. Ma a pensarla alla stessa maniera sono in tanti. Impegnati come sono a passare il bianchetto, sulle proprie peculiarità. D’altronde, la radice è una ma le propagazioni sono tante.

 

(Fonte:www.destra.it, Francesco Marotta, 11 maggio 2017)

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