Il regista e drammaturgo Leo Muscato ha inscenato una «Carmen» codina e completamente stravolta. L’opera di Georges Bizet ha debuttato il 7 gennaio al Teatro del Maggio Musicale di Firenze. Quella che viene definita con superficialità una furbesca un’intuizione di Muscato, cioè il finale riscritto che vede la gitana uccidere Don José anziché il contrario, desta scalpore e non solo quello. Insomma, dove va uno vanno tutti e se «L’amour est un oiseau rebelle» (L’amore è un uccello ribelle), questa volta ha proprio sbagliato indirizzo.
Di “ribelle” non c’è nulla se non la volontà di riproporre, a proposito di copioni, sempre lo stesso. Possiamo anche essere d’accordo con la quasi inesistente emotività che può suscitare il libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy tratto da «Carmen» di Prosper Mérimée ma, contrariamente, gradire molto le note della musica di Bizet. Il punto non è questo.
È una cosa totalmente diversa, dal pensarla alla stessa maniera di Annalena Aranguren, dell’ufficio cerimoniale del Maggio Musicale che dalle pagine in rete de La Repubblica Firenze, rendo noto quanto segue: «La storia di Carmen altro non è che quella di un femminicidio: la protagonista subisce violenza perché Don José scambia l’amore con il possesso, e lei non vuole essere posseduta da nessuno». Questa è la sua interpretazione. Punto.
Innanzitutto, seguendo questa logica, la prima cosa che viene in mente è il perché non sia stata presentata per prima, l’opera originale. Dopotutto, la signora e/o signorina Aranguren, dovrebbe pur sapere che in Italia i “femminicidi” sono stati qualcosa in più di 100, ossia il 30% del totale degli omicidi. E quest’ultimi non si trasformano, tali rimangono.
In quest’opera, molto utile per quello che riguarda l’ambito propagandistico, i bambini, gli anziani, i toreador (vista l’ambientazione), sono secondari. Scompaiono come le invenzioni mediatiche e strumentali, come quel 50% dei “femminicidi” commessi dai migranti. Tutto tace e la «Carmen» si è presa la sua invidiabile rivincita.
Intanto, il sovrintendente del Maggio Musicale, Cristiano Chiarot, colui che ha chiesto di riscrivere al regista Leo Muscato l’intera opera, mica solo il finale, è convinto che «non era pensabile applaudire l’uccisione di una donna in un momento in cui la società sta vivendo la piaga del femminicidio».
Aggiornandoci cosi, sugli sviluppi di una pimpante “eticità” che «in fondo qualche libertà etica si può prendere, senza per questo tradire lo spirito di un’opera» … Insomma, diciamo che pur di far passare un messaggio giusto/opinabile o sbagliato che sia, non ha nessuna importanza calpestare la cultura, l’arte propriamente detta e la sfera artistica.
Per i giallisti, l’arte è anche il saper descrivere un assassinio: uno è uno, e due diventano assassinii. Questa è la distinzione, l’unica. Dall’altra parte, in alto o in basso, oppure da nessuna parte, l’ultimo atto rappresenta in ogni caso, la fine. Lasciamo a voi giudicare se terrena oppure no.
E al di là di come la si pensi sulla versione della «Carmen», diciamo integra, sulle opere con l’urina del fotografo statunitense Andres Serrano (nel Settecento l’uso riguardava solo l’ambito tecnico!), sui dipinti con lo sperma del tedesco Martin von Ostrowski, su quelli con il sangue della rockstar Pete Doherty e delle “opere d’arte” dell’infermiera inglese Mary Barnes, dipinte da una schizofrenica nel 1965 con gli escrementi umani… Erano e sono anche loro, avvolte dal medesimo bisogno di una libertà che ha tradito sé stessa. Spesso nel ridicolo, nell’assurdo.
Ma questo è il filone che ha ucciso la Bellezza e ciò che è connaturale, restituendoci una «Carmen» un po’ meno “puttana” ma parecchio implacabile? Una al posto dell’altra, coltivando l’illusione di essere migliori. Mentre i fischi, coprono di ridicolo il palco ed il copione delle “ottime” intenzioni. Tifando un po’per uno e un po’ per l’altro. A seconda di come tira il vento.