Quando Metal Carter dei Truceboys in “Fuck Hip Hop”, presente nel disco “Sangue”, si dichiara ‘nato sul Tevere mica a Los Angeles’, ed innesca le critiche su una parte della scena italiana che si basa sulle tematiche di quella americana, (in)volontariamente dice perché artisti come i Truceboys sono allineati ad un concetto fondamentale della musica nera di questo secolo: l’affermazione della propria identità. Come spiega con dovizia di dettagli Amiri Baraka ne “il Popolo del Blues”, la condizione sociale del nero americano nasce dalla distanza sia dall’americano, da cui è separato culturalmente, che dall’africano, da cui è separato fisicamente, e questo comporta la nascita di una forma d’arte che ne certifichi l’esistenza; quest’ottica richiama la considerazione adorniana che il Jazz rappresenti, oltre ad una volontà di riscatto, l’accettazione di una condizione socialmente differente e, di fatto, subalterna. Questo presupposto può diventare una chiave di lettura, per comprendere l’importanza dell’aspetto improvvisativo, diversa dalla semplice derivazione dal modello africano dei canti collettivi proposta da Baraka. Da un punto di vista linguistico, l’improvvisazione può essere vista come un modo per inserire un elemento personale dentro una tradizione, lo spartito, definita da altri ed in questo modo un’opera passa da un livello personale ad uno collettivo o storico.
Appare quindi in qualche modo lineare il passaggio dall’improvvisazione al campionamento, caratteristica tipica della forma musicale dell’hip hop, nel momento in cui questo viene visto come un modo per rielaborare, e tramandare, qualcosa del passato che, per essere significativo, dev’essere legato al vissuto di chi compie quest’operazione. Nel momento in cui viene scelto qualche secondo di un disco e viene usato come elemento, più o meno riconoscibile, di un brano, chi ascolta è chiamato a relazionarsi in due forme: o a guardarlo come elemento a sé, e valutandolo solo in rapporto agli altri elementi dell’opera, oppure come rimando culturale, e ripercorrendo la relazione che viene intessuta col passato; se, nel primo caso, ogni elemento sonoro ha potenzialmente lo stesso significativo di qualunque altro, nel secondo caso, un rimando è importante nella misura in cui s’intreccia con qualcosa di prossimo ad un’identità culturale.
A questo punto, è opportuno ricordare che il writing tradizionalmente inteso è basato sullo scrivere nel modo più elaborato ed originale possibile un nome, che sia il proprio o quello della crew, che è, in fin dei conti, il primo elemento di un’identità. Chi vede solo una serie di segni sul muro, al posto di decifrare il nome, viene escluso dal processo comunicativo, e pertanto dalla comunità poiché un significato è possibile solo se una collettività condivide un significante.
La citazione, nel momento in cui viene campionato un brano riconoscibile, può innescare un meccanismo per il quale l’ascoltatore che coglie il riferimento, a differenza degli altri, viene inserito in un percorso che collega passato e presente e che è ben diverso da quello tracciato da altri filoni della modernità che si fondano sulla cesura radicale con ciò che li ha preceduti. In questo modo un’identità viene (ri)costruita rilavorando un passato, invece di rievocarlo filologicamente e.g., musica popolare, che ha valore di riferimento, dato che la scelta di ciò che viene citato è dettata, evidentemente, dal fatto di sentirlo come proprio. In altri termini, la decisione di (ri)prendere certi elementi, nell’insieme dei possibili, è legata, al di là della questione estetica, al legame che essi hanno con ciò che vuole essere espresso che, in termini individuali, può essere e.g., un sentimento, ma, in termini collettivi, può essere un segno d’appartenenza ad una comunità. Nel secondo caso, appare evidente l’interrelazione che esiste tra identità individuale, nella scelta del campione, e collettiva, nel suo significato sociale, dato che quest’ultima può essere vista come riconoscimento condiviso del riferimento culturale.
Andrea Piran