Dibattito/ Donald Trump e l’interventismo americano: con lui o senza di lui

 

Giungono da Washington segnali chiari e inconfondibili sul cambio di rotta della politica statunitense. Donald Trump è un simpatico spaccone che al posto dell’acqua di colonia, preferisce imbellettarsi con un estratto di polvere da sparo. Questa è a grandi linee, l’opinione degli anti-repubblicani, dei suoi detrattori che non gliele mandano a dire, perfino all’interno del suo stesso schieramento. Per gli antimodello Trump, vige la regola invalsa dello sberleffo e della denigrazione del “Cowboy” di New York. In definitiva, la solita recita ed una opposizione che presto si trasformerà casualmente, in un attestato di stima alla prossima linea politica targata USA: all’interventismo interno e in chiave estera.

Bisogna essere chiari, perché dimenticandoci per un momento di Trump, dei repubblicani, dei democratici e di chiunque sia l’ipotetico vincitore delle presidenziali americane, a cambiare non sarà soltanto il tipo di «geografia» che verrà indicata al Pentagono. Trattasi né più né meno, del cambio di muta proprio dei cicli politici d’oltreoceano: passando a fasi alterne da un “anti-interventismo” di facciata ( l’avvento di Obama non ha precluso nessuna ingerenza in campo internazionale), alla volontà di voler tornare a mostrare i muscoli.

La storia degli Stati Uniti è costellata di questa dualità profondamente materialista e, tanto per non andare troppo lontani nel tempo, da Jimmy Carter in poi (1977-1981) a Barack Obama (2009-2016), notiamo un’alternanza tra i due poli politici che è rivelatrice. A dettare i tempi di questo avvicendamento è il Congresso di tipo bicamerale che ha pieni poteri, attribuitigli dalla Costituzione. Le rimostranze dei Presidenti e le loro richieste di fine mandato, sommate ad alcune risoluzioni congressuali, quasi sempre contrapposte al potere esecutivo, denotano delle scelte e un’inclinazione decisionista.

Dalla Siria all’Ucraina, dall’approccio nel Sud-Est asiatico, finalizzato ad incrementare le esportazioni di armamenti ad Hanoi per provare a contenere la supremazia cinese, alla visita-burla in Giappone per i 71 anni dell’eccidio di Hiroshima, lo ‘sguardo geografico’americano non ha mai smesso di guardare con interesse il Pacifico. E tanto meno, come ha scritto correttamente Manlio Dinucci nel suo articolo “Strategia del golpe globale” del 24/05/2016 sulle pagine del Il Manifesto on line, eccetto alcune divagazioni di carattere similcospirazionista, vi sono anche «il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe».

E su tutti gli altri quotidiani ? Nessuna traccia. Volendo, può essere ammissibile per il Corriere della Sera e per Repubblica. Addirittura, anche per Il Giornale che ha dimostrato molta stima per il “parruccone”. Forse, ricorda l’uomo che c’è la fatta nella vita e per cui va da sé, riuscirà ancor meglio in politica. Dimentichi di una delle norme generiche che ha distrutto in tutto l’Occidente la partecipazione attiva in politica. Insomma, un Berlusca più a destra, per il semplice motivo che a Donald, piace il grilletto facile; adora i muri, ripassa a meno dito i motti dei “Diari di Turner” e in ultimo, incarna alla perfezione il «Sogno Americano».

Ecco perché alla destra, piacciono ancora tanto i predicatori alla Jerry Falwell e alla Pat Robertson ed ha sempre avuto una certa attrazione, per certi racconti moralisti e picchiapetti che recitano a menadito un «Dio è con noi». Tutto il resto ha poca importanza e se vincerà Trump oppure no, è solo un dettaglio. L’ennesimo corso a stelle e strisce ed i soliti convertiti alla “Nuova evangelizzazione” tra inquietudine, nostalgismo e speranze altrui.

Fonte: http://www.destra.it., Francesco Marotta, 31 maggio 2016

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